Dossier Dossiers |
Il "meta-cinema": quando il cinema riflette su se stesso |
"Meta-cinema": when movies reflect
on themselves |
Questo Dossier fa parte del progetto I film sul cinema: uno sguardo "dall'interno" sul mondo del cinema Gli altri Dossier del progetto sono: * I film sul cinema: introduzione generale * Le divinità del cinema: ascesa e caduta delle stelle * Sul set: assistere alle riprese di un film * Il "sistema di Hollywood": dietro le quinte della "fabbrica dei sogni" * I "film nei film": lo spettatore raddoppiato * Registi dentro e fuori dal set * Produttori e sceneggiatori: le "figure nascoste" del cinema |
This Dossier is part of the project Movies about movies: insiders' looks at the world of cinema The other Dossiers in the project are: * Movies about movies: a general introduction * Movie gods and goddesses: the rise and fall of stars * On the set: watching films being made * The "Hollywood system": behind the scenes of the "dream factory" * "Films within films": viewers watching viewers * Directors on and out of the set * Producers and screenwriters: the "hidden figures" of filmmaking |
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1. Introduzione In tutti i Dossier di questo progetto (vedi l'Indice qui sopra), i film presi in considerazione, avendo come tema il mondo del cinema, rappresentano in qualche modo una riflessione che il cinema fa su se stesso, sul sistema produttivo che ne sta alla base, sulle figure professionali che vi operano (registi, attori/attrici, produttori, e così via), sui rapporti che legano queste figure, nonchè sui sistemi di valori che vengono veicolati e sulla relazione tra schermo e spettatore. Tuttavia, questa riflessione viene condotta in modi molto diversi a seconda degli scopi che i singoli film si propongono, nonchè in dipendenza del "genere" a cui appartengono (commedia piuttosto che dramma, musical piuttosto che film biografico, storico, horror, ecc.). Molto spesso i "film sui film" prendono la forma della commedia, in cui il mondo del cinema viene evocato per farne oggetto di ironia, di satira e persino di farsa. 2. Riflessione esplicita e implicita Tuttavia, questi film "riflessivi" differiscono molto tra di loro per una varietà di motivi. Innanzitutto, il livello di "riflessività" può essere più o meno esplicito: in altre parole, un film può porsi chiaramente come uno "specchio" del cinema oppure può sollecitare questo "rispecchiamento" in modo più sottile e meno evidente. Ad esempio, in Man bites dog (si veda il trailer qui sotto), il cui titolo originale significa "E' successo vicino a casa vostra", una troupe segue un serial killer allo scopo di realizzare un documentario sui suoi tremendi crimini. Dapprima osservatori imparziali, i cineasti man mano vengono coinvolti nella catena di efferati omicidi, fino a diventarne complici. In questo caso è evidentissimo il legame, fin quasi la sovrapposizione, fra la "trama" del documentario che viene girato nel film ed il film stesso, come noi lo vediamo in quanto spettatori. Si tratta dunque di un film che, in un certo senso, è a sua volta un film, con un esplicito riconoscimento della natura "riflessiva" che questa operazione comporta. |
1. Introduction In all the Dossiers of this project (see the Contents above), the films taken into consideration, having the world of cinema as their theme, somehow represent a reflection that cinema makes on itself, on the production system at its base, on its professional figures (directors, actors/actresses, producers, and so on), on the relationships that bind these figures, as well as on the value systems that are conveyed and on the relationship between screen and spectator. However, this reflection is conducted in very different ways according to the purposes that the single films serve, as well as depending on the "genre" to which they belong (comedy rather than drama, musical rather than biographical, historical, horror, etc.). Very often "films about films" take the form of comedy, in which the world of cinema is evoked to make it the subject of irony, satire and even farce. 2. Explicit and implicit reflection However, these "reflective" films differ greatly from each other for a variety of reasons. First of all, the level of "reflexivity" can be more or less explicit: in other words, a film can clearly act as a "mirror" of cinema or it can solicit this "mirroring" in a more subtle and less obvious way. For example, in Man bites dog (see the trailer below), whose original title means "It happened near your home", a crew follows a serial killer in order to make a documentary about his terrible crimes. At first impartial observers, the filmmakers gradually become involved in the chain of heinous murders, until they become accomplices. In this case the link, almost the overlap, between the "plot" of the documentary filmed in the film and the film itself, as we see it as spectators, is very evident. It is therefore a film which, in a certain sense, is itself a film, with an explicit acknowledgment of the "reflective" nature that this operation entails. |
Man bites dog/C'est arrivé près de chez vous (di/by Rémy Belvaux, André Bonzel e/and Benoît Poelvoorde, Belgium 1992) - Il film completo, in versione originale francese con sottotitoli, è disponibile qui/The full film, in its original French version with subtitles, is available here. |
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Un altro
esempio è All that jazz, il cui protagonista, Joe Gideon, è sia
coreografo (una sorta di equivalente di un regista rispetto al balletto)
che regista, ora impegnato nel montaggio del suo ultimo film. Maniaco
del lavoro, fumatore accanito e donnaiolo, si droga per poter continuare
a lavorare (vedi la sequenza di apertura nel Video 1 qui sotto), sebbene
sia ben consapevole che le sue condizioni fisiche lo porteranno presto
alla morte. Il film racconta la sua routine quotidiana, con le sue
condizioni che peggiorano gradualmente, finché i produttori del film che
non ha ancora finito si rendono conto che un modo per recuperare i loro
soldi è mettere in scena la morte di Joe. La parte finale del film
diventa così un monumentale spettacolo di varietà (vedi il Video 2
qui sotto), in cui realtà, sogni e allucinazioni si mescolano mentre Joe
mette in scena il processo della sua morte. Tuttavia, questo non è
veramente uno "spettacolo nello spettacolo": è piuttosto la vita e la
morte di Joe messe in scena per concentrarsi esplicitamente sul mezzo,
lo spettacolo stesso, evidenziando il potere della musica e del balletto
di sfidare la morte, restando così fedeli al mantra di Joe ( "Si
va scena, ragazzi!") fino alla sua morte e oltre. L'impatto drammatico
del film è accentuato dal fatto che il suo regista, Bob Fosse, lui
stesso coreografo e regista, con All that jazz stava
effettivamente girando una sorta di autobiografia - in effetti morì
pochi anni dopo. |
Another example is
All that jazz, whose main character, Joe Gideon, is a both
choreographer (a sort of the equivalent of a director with respect to
ballet) and a director, now busy in editing his latest film. A
workaholic, a chain-smoker and a womanizer, he takes drugs in order to
be able to continue working (watch the opening sequence in Video 1
below), although he is well aware that his physical
condition will soon lead him to his death. The film chronicles his daily
routine, with his condition gradually worsening, until the producers of
the film he hasn't yet finished realize that one way to recoup their
money is to actually stage Joe's death. The final part of the movie thus
becomes a monumental variety show (watch Video 2 below), in which reality, dreams and
hallucinations mix as Joe stages his own process of dying. However, this
is not really a "show within the show": it is rather Joe's life and
death enacted to focus explicitly on the medium, the show itself,
highlighting the power of music and ballet to defy death and be faithful
to Joe's mantra ("It's showtime, folks!") until and beyond his own
death. The dramatic impact of the movie is heightened by the fact that
its director, Bob Fosse, himself a choeographer and director, with
All that Jazz was actually filming a sort of autobiography, and
indeed died a few years later. |
Video 1 Video 2 All that jazz (di/by Bob Fosse, USA 1979) |
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Un altro esempio di film "che riflette su se stesso" in modo esplicito, offuscando la distinzione tra film e realtà, è La donna del tenente francese (vedi il trailer in basso a sinistra), dove la storia narrata dal film (un dramma del periodo vittoriano) si interseca con la storia di girare lo stesso film, soprattutto perché i due amanti in entrambe le storie sono le stesse persone. E se il dramma d'epoca ha un lieto fine, la storia dei due attori no. A un livello completamente diverso, Woody Allen in Stardust memories (vedi il trailer in basso a destra) interpreta un famoso regista afflitto dai suoi fan che non sopportano il suo lavoro più recente e più "artistico" e preferirebbero che continuasse a girare i suoi "film precedenti, più divertenti"- evidenziando, ancora una volta, il rapporto stretto ma problematico tra i film e il loro" creatore ". |
Another example of a movie "reflecting upon itself" in an explicit
way, blurring the
distinction between film and reality, is The
French lieutenant's woman (watch the trailer below left), where the story narrated by the film (a
Victorian period drama) intersects with the story of shooting the film,
especially since the two lovers in both stories are the same persons.
And if the period drama has a happy ending, the story of the two actors
has not. On quite a different level, Woody Allen in Stardust
memories (watch the trailer below right) plays a famous director
plagued by his fans who can't stand his most recent, more "artistic"
work and would rather have him continue shooting his "earlier, funnier
movies" - highlighting, once again, the close but problematic
relationship between films and their "maker". |
La donna del tenente francese/The French lieutenant's woman (di/by Karel Reisz, GB 1981) |
Stardust memories (di/by Woody Allen, USA 1980) |
All'estremo opposto di questo continuum esplicito/implicito
troviamo un film come The Blair Witch
Project (si vedano i trailer qui sotto), che racconta la storia di tre
ragazzi che esplorano una foresta infestata da una leggendaria strega,
registrando le loro scoperte con una videocamera. Il film poi sostiene
di essere effettivamente tratto dal reportage dei tre, rinvenuto un anno
dopo la loro sparizione. Si tratta dunque di un mockumentary
(ossia un finto documentario), che però alla sua uscita, grazie ad
un'abilissima campagna pubblicitaria che spacciava la storia per vera,
scatenò una curiosità enorme su Internet, decretandone uno straordinario successo. Forse mai come in questo caso, "film girato" e "film
proiettato in sala" sono stati, sia pure fittiziamente, sovrapposti,
creando in tal modo anche un'opera che è lo specchio di se stessa, e che
mantiene sempre. programmaticamente, la sua riflessione a livello
implicito. |
At the other extreme of this explicit/implicit continuum we find a film like The Blair Witch Project (see the trailers below), which tells the story of three boys who explore a forest haunted by a legendary witch, recording their discoveries with a video camera. The film then claims to be actually based on the report of the three youths, which was found a year after their disappearance. It is therefore a mockumentary (i.e. a fake documentary), which, however, upon its release, thanks to a clever advertising campaign that claimed the story as true, sparked enormous curiosity on the Internet, making it an extraordinary success. Perhaps never as in this case have "film as shot" and "film shown in theaters" been superimposed, albeit fictitiously, thus also creating a work which is the mirror of itself, and which always maintains. programmatically, its reflection on an implicit level. |
Trailer italiano English trailer The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair/The Blair Witch Project (di/by Daniel Myrick e/and Eduardo Sanchez, USA 1999) |
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Anche Forgotten silver (si veda il trailer qui sotto),
co-diretto da Peter Jackson, il famoso regista della trilogia di
Il
signore degli Anelli (Nuova Zelanda/USA 2001-2003) e del remake di
King Kong (Nuova Zelanda/USA 2005), è un mockumentary,
un falso documentario sulla vita e le opere di un inesistente cineasta
neozelandese, di cui si raccontano le mirabolanti scoperte tecniche,
fornendo spezzoni di suoi film e interviste con veri esperti (ma
ovviamente dal contenuto falso). Il film è talmente "serio" e
"autentico" nel tono da poter trarre in inganno lo spettatore un po'
sprovveduto. In questo caso, dunque, siamo di fronte ad una
"manipolazione", che è anche una "riflessione" sul potere del
cinema-documentario, assolutamente implicita, mai "svelata". |
Forgotten silver (see the trailer below), too, co-directed by Peter Jackson, the famous director of The Lord of the Rings trilogy (New Zealand/USA 2001-2003) and the King Kong remake (New Zealand/USA 2005), is a mockumentary, a false documentary on the life and works of a non-existent New Zealand filmmaker, whose astonishing technical discoveries are told, providing clips from his films and interviews with real experts (but obviously with false content). The film is so "serious" and "authentic" in tone that it can mislead the somewhat naive spectator. In this case, therefore, we are dealing with a "manipulation", which is also a "reflection" on the power of documentary cinema - absolutely implicit, never "revealed". |
Forgotten silver (di/by Peter Jackson e/and Costa Botes, Nuova Zelanda/New Zealand 1995) - Il film completo con sottotitoli è disponibile qui/The full film with subtitles is available here. |
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Un'operazione simile a Forgotten silver era stata compiuta
qualche anno prima da Woody Allen in Zelig (si vedano i video
qui sotto), finto documentario su un immaginario personaggio, una specie
di camaleonte che, per problemi personali, riesce ad assumere l'aspetto
e le caratteristiche psicologiche delle persone attorno a lui. Anche in
questo caso, finte testimonianze, finte interviste e finti (ma anche
veri) materiali d'archivio servono a creare l'illusione della realtà,
anche se, diversamente dal film precedente, il fatto che Zelig sia
interpretato da Woody Allen stesso, rende molto meno implicita tutta
l'operazione, che riconosciamo subito essere una perfetta montatura
(comprese le citazioni cinefile e le imitazioni degli stili di altri
registi). Il film diventa così anche (e forse soprattutto) una
riflessione artistica, filosofica ed etica che Allen fa in prima persona
su se stesso, sul suo modo di fare cinema e sul cinema in generale. |
A similar operation to Forgotten silver had been performed a few years earlier by Woody Allen in Zelig (see the videos below), a fake documentary about an imaginary character, a kind of chameleon who, due to personal problems, manages to assume the appearance and the psychological characteristics of the people around him. Again, fake testimonies, fake interviews and fake (but also real) archival materials serve to create the illusion of reality, even if, unlike the previous film, the fact that Zelig is played by Woody Allen himself makes the whole operation much less implicit, as we immediately recognize it to be a perfect setup (including the cinephile citations and imitations of other directors' styles). Thus the film becomes also (and perhaps above all) an artistic, philosophical and ethical reflection that Allen makes in the first person on himself, on his way of making cinema and on cinema in general. |
Italiano English Zelig (di/by Woody Allen, USA1983) |
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3. Livelli di profondità della riflessione, fino al
"metacinema" In secondo luogo, i film "riflessivi" differiscono tra di loro per il livello, più o meno profondo o superficiale, con cui rispecchiano la realtà del cinema. A volte il tema centrale del film non è nemmeno il cinema ed il suo mondo, che vengono utilizzati solo come sfondo per la trama; così come la focalizzazione su una star o un regista può essere solo il pretesto per raccontare una storia. Altre volte, il mondo del cinema costituisce invece il contesto che condiziona sia il ritratto dei personaggi che la storia narrata, ed in questo caso la riflessione sul cinema può essere svolta in termini più approfonditi o più critici. Si considerino ad esempio i film che comprendono, come parte della storia, le riprese di un film (o addirittura "un film nel film") come, per citare un esempio recente, C'era una volta ... a Hollywood (si vedano i trailer qui sotto), che parla di un attore e del suo stuntman e include sequenze dei film in cui entrambi recitano. |
3. Different levels of reflection, towards "metacinema" Secondly, "reflective" films differ from each other in the level, more or less deep or superficial, with which they reflect the reality of cinema. Sometimes the central theme of the film is not even the cinema and its world, which are used only as a background for the plot; just as focusing on a star or a director can only be the pretext for telling a story. At other times, the world of cinema instead constitutes the context that conditions both the portrayal of the characters and the story told, and in this case the reflection on cinema can be carried out in more in-depth or more critical terms. Consider, for example, films that include, as part of the story, shooting a film (or even "a film within a film") such as, to mention a recent example, Once Upon a Time ... in Hollywood (see the trailers below), which is about an actor and his stuntman and includes footage from the films they both star in. |
Trailer italiano English trailer C'era una volta ... a Hollywood/Once upon a time in Hollywood (di/by Quentin Tarantino, USA-GB-Cina/China 2019) |
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Andando ancora più a fondo, in molti film l'obiettivo non è tanto quello
di raccontare una storia attraverso una trama, quanto piuttosto di
esporre il funzionamento del film stesso, ovvero di coinvolgere lo
spettatore nel pensare a perché e come il film è stato
realizzato, e ai problemi che questo implica, sia per il regista che per
lo spettatore. Si tratta allora di quello che viene chiamato spesso
"metacinema".
I film "riflessivi" a questo livello di profondità pongono al pubblico domande come:
Cos'è il
cinema? Come funziona un film? Quali sono i suoi usi? Quali sono i
rapporti tra regista, attori e spettatori? - in modo che, invece di
concentrarsi sui personaggi, le loro storie e le loro motivazioni,
l'argomento del film è cercare risposte a tali domande (spesso
attraverso il regista stesso, che diventa così una sorta di
protagonista). Questi film possono naturalmente "spiazzare" gli
spettatori, sollecitandoli ad assumere un atteggiamento più critico,
quindi "intellettuale" più che emotivo, nei confronti della loro
visione. I film di questo tipo, che si "svelano" completamente, mettendo in risalto proprio il loro meccanismo interno, sono all'opposto dei classici film hollywoodiani, che si basano invece proprio sul mascherare completamente i meccanismi di funzionamento del film, in modo che lo spettatore non sia mai consapevole dell'irrealtà di quello che sta vedendo e sentendo e si identifichi così facilmente, e per tutta la durata del film, con i personaggi e la storia narrata. Non a caso, come vedremo, i "meta-film" appartengono spesso a cinematografie diverse da quella statunitense (in primo luogo al cinema europeo), e a circuiti di produzione e distribuzione altrettanto diversi dal cosiddetto mainstream, rientrando a volte in quelli che, a vario titolo, vengono definiti film "d'arte", "d'essai", "d'avanguardia" o sperimentali (anche se, negli ultimi decenni, elementi di film "meta" si sono fatti strada anche nel cinema mainstream, per esempio con i cosiddetti puzzle films, per i quali si veda il relativo Dossier). A livello formale e di "stile", i meta-film si riconoscono in genere piuttosto bene per l'uso anticonvenzionale e a volte spregiudicato che fanno del linguaggio cinematografico: ad esempio, un personaggio può rivolgere lo sguardo, e anche la parola, direttamente verso il pubblico, distruggendo l'illusione della cosiddetta "quarta parete": il film classico, infatti, si svolge all'interno di uno spazio (il campo), coincidente con ciò che lo spettatore vede sullo schermo, delimitato su tre lati, essendo il quarto lato, quello rivolto verso il pubblico, riservato alla macchina da presa, che, in un certo senso, costituisce proprio l'"occhio" del pubblico stesso. E si arriva, nei casi più estremi, alla simbolica distruzione del campo classico, quando ad esempio la macchina da presa riprende il set o la troupe, o quando il regista interrompe le riprese, o vi si inserisce, facendo parlare gli attori/attrici in quanto persone reali e non in quanto personaggi della storia che stanno interpretando. In ogni caso, a farne le spese è l'"illusione di realtà" che il cinema convenzionale ha sempre perseguito come suo scopo e caratteristica fondamentale: la "vera" realtà, in altre parole, irrompe sullo schermo, mettendo in questione la stessa idea di cinema e, con essa, il ruolo di chi fa e di chi consuma cinema. 3. Antecedenti illustri Specifici antecedenti di questo genere di film si possono trovare in tutta la storia del cinema, sin dai suoi inizi. E' rimasto celebre, per esempio, il gioco che Buster Keaton conduce con la sua macchina da presa in Il cameraman. Luke (Keaton) è un cineamatore che cerca disperatamente di farsi assumere a Hollywood, ma le sue riprese sono un disastro, sconnesse e caotiche - finchè un giorno una scimmia lo aiuterà a filmare una rissa durante una processione a Chinatown (si veda il video qui sotto a sinistra), e in questo modo risolverà i suoi problemi di lavoro (e anche di amore). Esilaranti sono le scene in cui non riesce a estraniarsi dalla folla, sempre attaccato alla sua macchina da presa che diventa quasi un'estensione del suo corpo, inserendo così una riflessione non banale su quanto la realtà possa essere ripresa e "addomesticata" attraverso il cinema, e sul controllo che l'"operatore" si illude di poter avere sulla vita concreta (al punto che persino una scimmia può sostituirsi a lui ...). Un tono decisamente più sperimentale caratterizza invece L'uomo con la macchina da presa (si veda il video qui sotto a destra), che consiste in un montaggio rapidissimo di brevi immagini di una giornata a Mosca, dal risveglio della città al tramonto, mostrando persone e oggetti della vita quotidiana che documentano il lavoro, ma anche il tempo libero e gli ambienti che la popolazione abita nella vita reale. Ma di fatto questo senso di realtà si mescola subito con la "magia" del cinema: tramite una serie di effetti speciali, la macchina da presa diventa via via la vera protagonista del film, emergendo insieme al suo operatore da un boccale di birra piuttosto che sovrapponendo il suo obiettivo con un occhio umano - metafora chiara di come il cinema "veda" al posto dell'uomo e possa perfino sostituirsi a lui: verso la fine, infatti, la macchina da presa assume una sua vita propria autonoma e indipendente: si muove da sola di fronte ad un pubblico, si monta da sè, diventa la sola protagonista della scena. Dziga Vertov ha girato un film anticipatore di molte future tendenze, mescolando riprese reali e illusioni fantastiche, documentario e finzione, allargando il suo sguardo a tutto campo sul significato e il valore delle immagini e sulla loro ricezione da parte del pubblico. "Vertov sosteneva che il ruolo del film in una società rivoluzionaria dovesse essere quello di aumentare la coscienza del pubblico creando uno stile cinematografico che lo portasse a vedere il mondo in un'ottica marxista ... Per Vertov gli artifici della finzione hanno prodotto solo intrattenimento da evasione e fantasie. I veri registi rivoluzionari dovevano fotografare la realtà - gli eventi quotidiani della gente comune. Questa materia grezza della vita poteva quindi essere trasformata in elementi significativi ... Vertov voleva che il pubblico capisse come funziona il film, in modo meccanico, tecnico, metodologico, oltre che concettuale, demistificando così il processo creativo. Voleva anche che il pubblico sapesse che il cinema è lavoro e il regista un lavoratore... Uno degli obiettivi principali di Vertov era aiutare il pubblico a comprendere il processo di costruzione nel film in modo che potesse sviluppare un atteggiamento sofisticato e critico". (Nota 1) |
Going even deeper, in many films the
goal is not so much to tell a story through a plot, but rather to expose
the functioning of the film itself, that is, to involve the viewer in
thinking about why and how the film was made, and the problems that
this implies, both for the director and for the spectator. It is then a
question of what is often called "metacinema". Reflective films ask the audience
questions like,
What is cinema? How does a film work? What are its uses? What are
the relationships between filmmaker, actors and viewers? - so that,
instead of focussing on characters, their stories and their motivations,
the film's subject is to look for answers to such questions (often
through the filmmaker her/himself, who thus becomes a sort of
protagonist). These films can naturally "displace" viewers, urging them
to assume a more critical, therefore "intellectual", rather than
emotional attitude towards their vision. Films of this type, which completely "reveal" themselves, highlighting their own internal mechanism, are the opposite of classical Hollywood films, which are instead based precisely on completely masking the functioning mechanisms of the film, so that the spectator is never aware of the unreality of what he is seeing and hearing and so easily identifies him/herself, and for the entire duration of the film, with the characters and the story being told. It is no coincidence that, as we shall see, "meta-films" often belong to cinematographies other than the American one (European cinema in the first place), and to production and distribution circuits that are equally different from the so-called mainstream, sometimes falling within those which are referred to as "art", "arthouse", "avant-garde" or experimental films (although, in recent decades, elements of "meta" films have also made their way into mainstream cinema, for example with the so-called puzzle films, for which see the relevant Dossier). On a formal and "stylistic" level, meta-films are generally easily recognizable thanks to the unconventional and sometimes unscrupulous use they make of cinematic language: for example, a character can look, and even speak, directly towards the audience, destroying the illusion of the so-called "fourth wall": the classical film takes place within a space (the field), coinciding with what the viewer sees on the screen, delimited on three sides, the fourth side being the one facing the audience, reserved for the camera, which, in a certain sense, constitutes the "eye" of the audience itself. Thus we reach, in the most extreme cases, the symbolic destruction of the classical field, when, for example, the camera shoots the set or the crew, or when the director interrupts the shooting, or enters it, making the actors/actresses speak as real people and not as the characters in the story they are playing. In any case, what is lost is the "illusion of reality" that conventional cinema has always pursued as its aim and fundamental characteristic: "true" reality, in other words, bursts onto the screen, questioning the very idea of cinema and, with it, the role of those who make and consume cinema. 3. Illustrious antecedents Specific antecedents of this kind of film can be found throughout the history of cinema, since its inception. For example, the game that Buster Keaton plays with his camera in The Cameraman has remained famous. Luke (Keaton) is an amateur cinematographer desperate to get a job in Hollywood, but what he shoots is a mess, disjointed and chaotic - until one day a monkey helps him film a fight during a procession in Chinatown (see the video below left), and in this way he will solve his work (and also love) problems. The scenes in which he is unable to distance himself from the crowd are hilarious - he is always attached to his camera which almost becomes an extension of his body, thus inserting a non-trivial reflection on how much reality can be captured and "tamed" through cinema, and on the control that the "operator" thinks he can have over concrete reality (to the point that even a monkey can take his place ...). A decidedly more experimental tone characterizes Man with a movie camera (see the video below right), which consists of a very rapid montage of short images of a day in Moscow, from the awakening of the city to sunset, showing people and objects of daily life that document work, but also leisure time and the environment that the population lives in in real life. But in fact this sense of reality is immediately mixed with the "magic" of cinema: through a series of special effects, the camera gradually becomes the real protagonist of the film, emerging together with his operator from a beer mug rather than superimposing its lens with a human eye - a clear metaphor of how cinema "sees" for man and can even replace him: towards the end the camera actually takes on its own autonomous and independent life - it moves in front of an audience, it assembles itself, it becomes the sole protagonist of the scene. Dziga Vertov made a film that anticipates many future trends, mixing real shots and fantastic illusions, documentary and fiction, widening his gaze on the meaning and value of images and their reception by the public. "Vertov argued that the role of film in a revolutionary society should be to raise the consciousness of the audience by creating a film style which caused them to see the world in Marxist ways ... For Vertov the artifices of fiction only produced entertainment-escape and fantasies. True revolutionary filmmakers should take pictures of actuality - the everyday events of ordinary people. This raw stuff of life could then be transformed into meaningful statements ... Vertov wished the audience to understand how film works-in a mechanical, technical, methodological, as well as conceptual way, thereby demystifying the creative process. He also wanted audiences to know that filmmaking is work and the filmmaker a worker ... One of Vertov's major goals was to aid the audience in their understanding of the process of construction in film so that they could develop a sophisticated and critical attitude." (Note 1) |
Il cameraman/The cameraman (di/by Edward Sedgwick [e/and Buster Keaton], USA 1928) - Il film completo è disponibile qui/The full film is available here. |
L'uomo con la macchina da presa/Человек с киноаппаратом, Chelovek s kino-apparatom/Man with a movie camera (di/by Dziga Vertov, Unione Sovietica/Soviet Union 1929) - Il film completo è disponibile qui/The full film is available here. |
Anche il maestro del cinema Orson Welles, che è stato un innovatore su
diversi fronti della cinematografia, ha reso esplicita la sua
riflessione sul cinema in diverse circostanze. Una delle più citate è il
finale di L'orgoglio degli Amberson (si veda il video qui
sotto), dove, al posto dei tradizionali titoli di coda che scorrono dal
basso verso l'alto dello schermo, elenca con la sua stessa voce questi
crediti, accoppiandoli ognuno con un'immagine che rimanda al ruolo
giocato nel film: l'autore del romanzo da cui è tratto il film
(con l'immagine del libro), il direttore della fotografia (macchina da
presa), il designer del set (i disegni preliminari),
il montatore (pellicola che si avvolge), l'assistente alla regia (la
sceneggiatura), il designer dei costumi femminili (stoffa), il
responsabile degli effetti speciali (altri ingranaggi). il responsabile
del suono (registratore) - e poi il cast, con le immagini, personaggi ed
interpreti ... E ciascuno viene nominato con una frase intera, finendo
con, "Io ho scritto la sceneggiatura e diretto il film. Mi chiamo Orson
Welles" (un microfono, che si allontana montato su un braccio
meccanico). Al di là del puro artificio, questo innovativo uso dei
titoli di coda segnala un intento decisamente "meta-cinematografico", il
desiderio, finito il film, di far tornare gli spettatori alla realtà: è
come se Welles dicesse, "Ecco, il film è finito, ora potete tornare al
vostro quotidiano", distruggendo così in un solo istante l'illusione
creata dal film e l'identificazione da parte degli spettatori. |
Even the film master Orson Welles, who was an innovator on several fronts of cinematography, made his reflection on cinema explicit in various circumstances. One of the most cited is the ending of The magnificent Ambersons (see the video below), where, instead of the traditional end credits scrolling from the bottom to the top of the screen, he lists these credits using his own voice, associating each of them with an image that refers to the role played in the film: the author of the novel on which the film is based (with the image of the book), the director of photography (a camera), the set designer (the preliminary drawings), the editor (the rolling film), the assistant director (the screenplay), the female costume designer (fabric), the special effects manager (other gears). the sound manager (a recorder) - and then the cast, with phptpgraphs, characters and performers ... And each is named in a full sentence, ending with, "I wrote the script and directed the film. My name is Orson Welles " (with a microphone mounted on a mechanical arm). Beyond the pure artifice, this innovative use of the end credits signals a decidedly "meta-cinematographic" intent, the desire, once the film is finished, to make the spectators return to reality: it is as if Welles said, "That's it, the film is over, now you can go back to your daily life", thus destroying in an instant the illusion created by the film and the identification on the part of the audience. |
L'orgoglio degli Amberson/The magnificent Ambersons (di/by Orson Welles, USA 1942) |
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"E' questa realtà diegetica che
certi registi hanno voluto smantellare, mostrando che il loro
intervento, lungi dal creare una pseudo-realtà sostitutiva dietro la
quale si dissolveva il loro lavoro svanì, doveva essere percepito come
la fabbricazione di rappresentazioni codificate ... La presa di
coscienza dei codici di rappresentazione implica dunque un vero e
proprio decondizionamento psichico: 'Il pubblico diventa consapevole che
sta davvero guardando degli attori che hanno recitato dei ruoli in un
film'." (Nota 2) 4. 1963: un anno di svolte straordinarie L'inizio degli anni '60 del secolo scorso è stato caratterizzato da profonde trasformazioni nel mondo del cinema, a loro volta legate a cambiamenti socioculturali di grande portata. Con la fine ormai prossima dello strapotere degli studios hollywoodiani, si chiudeva un'era (non a caso spesso chiamata l'"età dell'oro" di Hollywood) e si apriva una fase tumultuosa, che vedeva nuovi registi, ma anche nuovi modi di fare cinema, affacciarsi sulla scena americana (quella che sarebbe stata identificata con la "New Hollywood"). Parallelamente, le cinematografie di parecchi paesi venivano investite da "onde" riformiste o più spesso rivoluzionarie, che, mettendo in discussione le rispettive tradizioni cinematografiche, sperimentavano modi diversi e alternativi di realizzare film: la nouvelle vague francese è forse l'"onda" più conosciuta, ma movimenti simili, animati dalla stessa forza innovativa e sperimentale anche se con esiti assai diversi, si sono avuti in vari paesi, dal Free Cinema britannico al cinema novo brasiliano. Il 1963 fu un anno particolarmente significativo, per la straordinaria contemporanea uscita di alcuni film destinati a segnare quell'epoca e quelle successive. Da una parte, usciva Cleopatra (di Joseph L. Mankiewicz, USA 1963), il colossal, girato per la maggior parte a Roma-Cinecittà, con cui Hollywood cercava disperatamente di risollevarsi da una crisi (economica, ma anche ideologica), dovuta a vari fattori (tra cui non secondario l'avvento della televisione), girando, per motivi di economia, in Europa, e puntando tutto sulle innovazioni tecnologiche come il Cinemascope - ma ottenendo invece un clamoroso flop commerciale. Dall'altra parte, uscivano in quello stesso anno tre film che di quel periodo di transizione sono rimasti icone indelebili: 8 1/2 di Federico Fellini, La ricotta di Pier Paolo Pasolini e Il disprezzo di Jean-Luc Godard - tre opere molto significative per il discorso sul meta-cinema che stiamo conducendo. Il fiorire di nuove "ondate" cinematografiche e la definitiva affermazione di maestri già conosciuti come Fellini, non possono essere correlati meccanicamente, ma non si può negare che l'atmosfera culturale dell'epoca avesse tutte le caratteristiche per influenzare atteggiamenti e scelte stilistiche e ideologiche per certi versi convergenti, anche se connotate da profonde differenze dovute alla forte personalità dei registi citati. 8 1/2 non a caso è incentrato sulla crisi professionale ed esistenziale del suo protagonista, un regista: una crisi di ispirazione che non è solo una questione privata ma diventa la crisi stessa della natura del cinema, del fare film, delle funzioni a cui il cinema può assolvere e della relazione tra regista, film e pubblico. Per tutto il film, il cinema diventa l'unico modo in cui il regista può dare forma ai suoi ricordi, sogni, fantasie, ossessioni e sentimenti. Il film come autobiografia: non una cronaca realistica, ma un utilizzo dell'elemento immaginario e immaginifico che il cinema mette a disposizione per (s)comporre e (ri)comporre il sè - e non alla ricerca di una coerenza impossibile, quanto per mettere insieme divagazioni di figure e di scene con cui dare voce comunque ai grandi temi della vita, dell'arte, del ricordo personale e sociale, fino al tema finale della morte. Dunque un cinema più che riflessivo, che non usa la riflessione critica e consapevole come strumento immediato quanto piuttosto l'immaginazione creativa che fonde in un tutt'uno pensieri e sentimenti. E alla fine cosa resta? Lo straordinario finale (si veda il video qui sotto) si svolge sul set del film, ma non per realizzare riprese quanto per "mettere in mostra" tutta la "macchina" del cinema, dalle impalcature agli interpreti, che sfilano tutti, insieme al regista, al suono di una marcetta da circo (la famosissima composizione del Maestro Nino Rota). |
"It is this diegetic reality that certain
directors wanted to dismantle, by showing that their intervention, far
from creating a substitute pseudo-reality behind which their work faded
away, had to be seen as the making of codified representations ... The
awareness of representation codes therefore implies a real psychic
deconditioning: 'The audience becomes aware that they are indeed
watching actors who have been playing roles in a movie'." (Note 2) 4. 1963: a year of extraordinary turning points The beginning of the 60s of last century was characterized by profound transformations in the world of cinema, in turn linked to far-reaching socio-cultural changes. With the imminent end of the traditional power of the Hollywood studios, an era was closing (it is no coincidence that it is often called the "golden age" of Hollywood) and a tumultuous phase began, which saw new directors, but also new ways of making films, appearing on the American scene (the one that would have been identified with the "New Hollywood"). At the same time, the cinematographies of many countries were hit by reformist or more often revolutionary "waves", which, questioning their respective cinematographic traditions, experimented with different and alternative ways of making films: the French new wave ("nouvelle vague") is perhaps the best known, but similar movements, animated by the same innovative and experimental force even if with very different results, took place in various countries, from the British Free Cinema to the Brazilian cinema novo. 1963 was a particularly significant year, due to the extraordinary, simultaneous release of some films destined to mark that era and the following ones. On the one hand, Cleopatra was released (by Joseph L. Mankiewicz, USA 1963), the colossal film, mostly shot in Rome-Cinecittà, through which Hollywood was desperately trying to recover from a crisis (economic, but also ideological), which was due to various factors (among which the advent of television),choosing to shoot films, for economic reasons, in Europe, and betting everything on technological innovations such as the Cinemascope - but instead obtaining a sensational commercial flop. On the other hand, three films were released that same year which have remained indelible icons of that transitional period: 8 1/2 by Federico Fellini, La ricotta by Pier Paolo Pasolini and Contempt by Jean-Luc Godard - three very significant works for the discourse on meta-cinema that we are conducting. The flourishing of new cinematic "waves" and the definitive affirmation of already known masters such as Fellini cannot be mechanically correlated, but it cannot be denied that the cultural atmosphere of the time had all the characteristics to influence attitudes and stylistic and ideological choices in some ways convergent, even if characterized by profound differences due to the strong personality of the directors themselves. 8 1/2 is, not by chance, focusses on the professional and existential crisis of its protagonist, a director: a crisis of inspiration which is not only a private matter but becomes the very crisis of the nature of cinema, of making films, of the functions which cinema can serve and of the relationship between director, film and audience. Throughout the film, cinema becomes the only way the director can use to give shape to his memories, dreams, fantasies, obsessions and feelings. The film as autobiography: not a realistic chronicle, but a use of the imaginary and imaginative element that cinema makes available to (de)compose and (re)compose the self - and not in search of an impossible coherence, but rather to put together digressions of figures and scenes to give voice to the great themes of life, art, personal and social memory, up to the final theme of death. Therefore a more than reflective cinema, which does not use critical and conscious reflection as an immediate tool but rather the creative imagination that blends thoughts and feelings together. And what's left in the end? The extraordinary finale (see the video below) takes place on the set of the film, but not to shoot but rather to "show off" the whole "machine" of cinema, from the scaffolding to the performers, who all walk past, together with the director, to the sound of a circus march (the very famous composition by Maestro Nino Rota). |
8 1/2 (di/by Federico Fellini, Italia 1963) |
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A sottolineare il nuovo, critico e
controverso rapporto tra Hollywood e le nuove cinematografie, è
interessante notare come due film usciti quasi in contemporanea nel
1963, La ricotta e Il disprezzo, abbiano a che vedere
con un regista europeo intento a girare un film storico, in Europa, e
più precisamente in Italia, con produttori (cioè finanziamenti)
americani - una situazione fatta apposta per promuovere uno sguardo
critico verso il cinema hollywoodiano "classico", sia nelle sue modalità
produttive-commerciali, sia sul piano ideologico. La ricotta fa parte di un progetto di film ad episodi intitolato Ro.Go.Pa.G. (il film intero, in italiano con sottotitoli, è visibile qui), dai nomi dei quattro registi chiamati a realizzarlo: Renzo Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti. L'episodio (dunque un mediometraggio), firmato da Pasolini (si veda il Video qui sotto), racconta della lavorazione di un film storico-religioso "all'americana" sulla Crocefissione: le (poche) scene che vediamo del "film nel film" sono a colori, mentre le scene della realizzazione sono in bianco e nero. Il film rappresenta una delle più chiare dichiarazioni della visione poetica di Pasolini (si veda il Dossier Pier Paolo Pasolini: i lungometraggi), in continuità con i precedenti Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), e subito prima del Vangelo secondo Matteo (1964), che il regista stava già progettando. In La ricotta, ancora una volta, viene messo in scena il contrasto tra il sottoproletariato dell'Italia di quegli anni e l'ideologia borghese in piena ascesa economica: questo contrasto sembra riflettersi nell'incontro/scontro tra il cinema anti-intellettuale, popolare, vitale del regista (interpretato da Orson Welles, alter-ego di Pasolini e del suo disprezzo per certo cinema hollywoodiano) e le esigenze commerciali e di mercato dei produttori, e dunque tra un cinema "impegnato", strumento di cultura e di riflessione, da una parte, e cinema puramente di evasione, dall'altra. Si noti che Welles non fu scelto a caso, avendo anche lui avuto a che fare con le pretese dei produttori e la conseguente difficoltà a creare e/o a portare a termine i suoi progetti. Il film è prepotentemente satirico, e giocato tra l'ironica contrapposizione tra il tema trattato e l'atmosfera che si respira sul set: un set che ricorda i precedenti film di Pasolini, con lo sfondo dei caseggiati popolari in via di costruzione nella periferia di Roma, tra occasionali ruderi archeologici e scene campestri. Questa commistione tra cultura "popolare" e cultura "alta" ha modo di manifestarsi in diversi modi: tutti, ad eccezione del regista, parlano in dialetto romanesco, le giovani comparse ballano il twist nelle pause della lavorazione, e quando si inizia a girare e si sente: "Il disco!" (ai minuti 03:14 e 24:54), si sente prima lo stesso twist poi una musica jazz, e infine la musica "giusta" di Scarlatti. Nel contempo, le scene della deposizione sono girate con il realismo pittorico filologico (con riferimenti espliciti a Rosso Fiorentino e al Pontormo) favorito da Pasolini. Tutta la lavorazione, però, è impregnata di contrasti ironici, dallo strip-tease improvvisato da un'attrice davanti alle tre croci ancora posate a terra (al minuto 20:04), all'affettuoso ricordo del cinema muto, con uno dei protagonisti, Stracci, che impersona il "buon ladrone", che corre per le campagne di Roma alla maniera delle immagini "accelerate" di Chaplin (esempi ai minuti 17:13 e 27:01). Il regista, che assiste a tutti questi "spettacoli" seduto immobile, con uno sguardo tra l'assente e l'ironico, quasi estraneo a quanto accade intorno a lui (compare per la prima volta al minuto 02:57), si limita a dire "Io sono una forza del passato", viene intervistato da un ottuso giornalista "uomo medio" (11:31), mandando frecciate pungenti al popolo italiano e soprattutto alla sua borghesia ("la più ignorante d'Europa"), e conclude l'intervista dicendo al giornalista, "Il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale", denunciando ancora una volta il potere finanziario che condiziona così pesantemente chi realizza un film. Alla fine, davanti ad un buffet riccamente imbandito, e sullo sfondo dei palazzoni popolari, questa borghesia, insieme ai politici di turno e ai giornalisti, accorre a festeggiare la fine delle riprese - solo per scoprire che Stracci, che per tutto il film ha manifestato la sua terribile fame, è morto sulla croce per indigestione di ricotta: da cui la battuta finale, tra il cinico e il rassegnato, di Welles, "Povero Stracci! Crepare! Non aveva altro modo per ricordarsi che anche lui era vivo". |
In order to stress the new, critical and
controversial relationship between Hollywood and the new
cinematographies, it is interesting to note how two films released
almost simultaneously in 1963, La ricotta and Contempt,
have to do with a European director intent on shooting a historical
film, in Europe, and more precisely in Italy, with American producers
(i.e. with American financing) - a situation made on purpose to promote
a critical gaze towards "classical" Hollywood cinema, both in its
production-commercial modalities and on an ideological level. La ricotta is part of a group film project entitled Ro.Go.Pa.G. (the full film, in Italian with subtitles, is available here), from the names of the four directors involved in it: Renzo Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini and Ugo Gregoretti. The episode (therefore a medium-length film), signed by Pasolini (see the video below), tells of the making of an "American-style" historical-religious film on the Crucifixion: the (few) scenes we see of the "film within a film" are in colour, while the scenes about the shooting are in black and white. The film represents one of the clearest declarations of Pasolini's poetic vision (see the Dossier Pier Paolo Pasolini's feature films), in continuity with the ones he has already shot, Accattone (1961) and Mamma Roma (1962), and immediately before The Gospel according to Matthew (1964), which the director was already planning. La ricotta, once again, stages the contrast between the Italian working and lower classes of those years and the bourgeois ideology in full economic ascent: this contrast seems to be reflected in the encounter/clash between the anti-intellectual, popular, vital cinema of the director (played by Orson Welles, alter-ego of Pasolini and representing his contempt for a certain Hollywood cinema) and the commercial needs of the producers, and therefore between a "committed" cinema, an instrument of culture and reflection, on the one hand, and purely escapist cinema on the other. It should be noted that Welles was not chosen at random, having also had to deal with the demands of the producers and the consequent difficulty in creating and/or completing his projects. The film is overbearingly satirical, catching the ironic juxtaposition between the subject matter and the atmosphere on the set: a set that recalls Pasolini's previous films, with the background of council houses under construction on the outskirts of Rome, among occasional archaeological ruins and rural scenes. This mingling of "popular" culture and "high" culture can manifest itself in various ways: everyone, with the exception of the director, speaks the Roman dialect, the young extras dance the twist during breaks in filming, and when shooting starts and you hear: "The record!" (at 03:14 and 24:54), first the same "twist" music is heard, then jazz music, and finally the "right" music by Scarlatti. At the same time, the scenes of the deposition are shot with the philological pictorial realism (with explicit references to Rosso Fiorentino and Pontormo) favoured by Pasolini. However, the entire production is imbued with ironic contrasts, from the strip-tease improvised by an actress in front of the three crosses still placed on the ground (at 20:04), to the affectionate memory of silent cinema, with one of the protagonists, Stracci, who plays the "good thief", who runs through the countryside of Rome in the manner of Chaplin's "accelerated" images (examples at 17:13 and 27:01). The director, who watches all these "shows" sitting motionless, with a look between absent and ironic, almost extraneous to what is happening around him (he appears for the first time at 02:57), limits himself to saying, "I am a force from the past". He is interviewed by an obtuse "average man" journalist (11:31), harshly criticizing the Italian people and above all its bourgeoisie ("the most ignorant in Europe"),ending the interview by saying to the journalist, "The producer of my film is also the owner of your newspaper", once again exposing the financial power that so heavily influences those who make a film. In the end, in front of a lavishly laden buffet, and against the backdrop of council houses, this bourgeoisie, together with politicians and journalists, rushes to celebrate the end of filming - only to discover that Stracci, who throughout the film has shown his terrible hunger, has died on the cross from an indigestion of "ricotta" (soft fresh cheese): hence Welles's final line, between the cynical and the resigned, "Poor Stracci! Dead! He had no other way to remember that he too was alive". |
La ricotta (di/by Pier Paolo Pasolini, Italia/Italy 1963) |
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Pur essendo un film molto diverso, la situazione di La ricotta
si replica in Il disprezzo: una troupe sta girando un film
sull'Odissea sugli sfondi meravigliosi di Capri. Anche in questo caso,
si evidenzia subito il contrasto tra lo sceneggiatore (Michel Piccoli),
che è stato ingaggiato da un produttore americano (Jack Palance) per
rendere la storia più "commerciale" e appetibile al grande pubblico, ed
il regista (Fritz Lang, nella parte di se stesso), che rappresenta un
cinema "puro", oltre che la migliore tradizione hollywoodiana, e che
vorrebbe invece rispettare lo spirito umanistico e di armonia tra uomo e
natura proprio del poema di Omero. Ai contrasti professionali,
generatori di compromessi tra il "mercato", da una parte, e le scelte
artistiche e morali, dall'altro, si aggiungono quelli privati: lo
sceneggiatore e sua moglie (Brigitte Bardot) sono in crisi, e di questo
approfitta il produttore (arrogante, narcisista, manipolatore di cose e
persone), suscitando, appunto, il disprezzo della donna nei confronti
del marito, che tollera la situazione fino ad un finale tragico. Il film, girato da quello che sarebbe diventato forse il massimo esponente (e grande teorico) della nouvelle vague francese, è costellato da continue riflessioni e discussioni sul cinema e sulle condizioni del "fare cinema" - a partire dal trailer, uno dei più originali mai realizzati (si veda il Video 1 qui sotto). E, sulla falsariga di Orson Welles, che, come abbiamo visto, aveva "recitato", invece che "scritto" i titoli di coda del suo L'orgoglio degli Amberson, anche Godard inizia il film presentando, con la sua voce fuori campo, gli interpreti e i più importanti ruoli "tecnici" (Video 2), facendo avanzare un dolly, che accompagna, con una carrellata laterale, due attori, che avanzano verso il primo piano: quando gli attori vanno fuori campo, il cameraman dirige il suo obiettivo ... verso di noi, gli spettatori, con uno "sguardo in macchina" molto eloquente: come per dire, ecco, adesso tocca a voi. Pochi istanti prima, Godard aveva citato il critico e teorico del cinema André Bazin: "Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda con i nostri desideri". Nel Video 3, vediamo una proiezione del filmato (si noti la frase a grandi caratteri sullo sfondo: Il cinema è un'invenzione senza avvenire" - Louis Lumière): è l'occasione per Fritz Lang di pronunciare la sua celebre battuta, "Non mi piace il Cinemascope: non è umano, va bene per filmare i serpenti o i funerali", che provoca la violenta reazione del produttore, che lo accusa di non seguire la sceneggiatura - al che Lang ribatte che è diverso leggere delle parole e creare delle immagini. E il produttore se ne esce con un'altra celebre battuta: "Quando si parla di cultura, io tiro fuori il libretto degli assegni", al che Lang ribatte che, anni prima, i nazisti estraevano dei revolver invece che degli assegni. Quando gli viene chiesto di mettere mano alla sceneggiatura, lo sceneggiatore non dice nulla, ma si intasca l'assegno ... il che fa dire a Lang che "l'uomo può stare senza paura solo davanti a Dio: il suo candore lo protegge e non ha bisogno nè di armi né di astuzia fino a quando l'assenza di Dio viene in suo aiuto". Più tardi, lo sceneggiatore si sfoga (Video 4): "Lo faccio solo per i soldi ... Tutti abbiamo un ideale, e il mio è quello di scrivere per il teatro ... Perchè il denaro deve occupare un posto così importante in quello che uno fa e in quello che uno è? ... O si fa l'Odissea di Omero o non si fa!", al che gli viene ribattuto che "Lei aspira a un mondo simile a quello di Omero, lei vorrebbe che esistesse ... ma è morto, non può fartlo rivivere" e poi, amaramente, "Lei può avere anche ragione, ma quando si tratta di fare un film, sogni e desideri non bastano". E lo sceneggiatore incarna proprio questa tensione drammatica tra desiderio e realtà: ma mentre il tono de La ricotta era ironico e divertito, anche se amaro, il tono di Il disprezzo è decisamente più malinconico e velato di tristezza per un mondo, e un cinema, che sta scomparendo. Nel finale (Video 5), lo sceneggiatore va a salutare il regista sul set: stanno girando la scena in cui Ulisse guarda il mare in direzione di casa (Itaca) ... "Una volta finito il film, [i produttori] Levine e Ponti si vendicheranno dell'atteggiamento molto critico di Godard nei confronti del cinema dei produttori tagliando arbitrariamente il film nelle versioni destinate all'estero: prova - se ce n'era ancora bisogno - della totale incompatibilità tra due visioni opposte del cinema e del mondo, tra l'enfant terrible Jean-Luc e il duo 'Mussolini Ponti' e 'King Kong Levine', come Godard, con il suo solito spirito irriverente, li aveva definiti." (Nota 3) |
Despite being a very different film, the situation of
La ricotta
is
repeated in
Contempt: a crew is shooting a film about the Odyssey
against the wonderful backdrops of Capri. In this case, too, the focus
is on the
contrast between the screenwriter (Michel Piccoli), who has been hired by an
American producer (Jack Palance) to make the story more "commercial" and
appealing to the general public, and the director (Fritz Lang, playing
himself), who represents "pure" cinema, as well as the best
Hollywood tradition, and which instead would like to respect the
humanistic spirit and harmony between man and nature typical of Homer's
poem. Professional contrasts, generators of compromises between
the "market", on the one hand, and the artistic and moral choices, on
the other, mirror private ones: the screenwriter and his wife
(Brigitte Bardot) are going through a crisis in their marriage, and the
producer (who is an arrogant and, narcissistic character, ready to manipulate things and people),
takes advantage of this, arousing the contempt of the woman towards her husband, who
tolerates the situation, up to its tragic ending. The film, shot by what was to become perhaps the greatest exponent (and great theoretician) of the French new wave, is punctuated by continuous reflections and discussions on cinema and on the conditions of "making cinema" - starting from the trailer, one of the most original ever made (see Video 1 below). And, along the lines of Orson Welles, who, as we have seen, had "acted" rather than "written" the end credits of The magnificent Ambersons, Godard also begins the film by presenting, in his voice-over, the performers and the most important "technical" roles (Video 2), by using a dolly, which accompanies, with a lateral tracking shot, two actors, who advance towards the foreground: when the actors go off-screen, the cameraman directs his lens ... towards us, the spectators, with a very eloquent "look into the camera": as if to say, "Well, now it's your turn". A few moments earlier, Godard had quoted the critic and film theorist Andrè Bazin: "Cinema replaces our gaze with a world that accords with our desires". In Video 3, we see a projection of the film (note the phrase in large letters in the background: "Cinema is an invention without a future" - Louis Lumière): it is an opportunity for Fritz Lang to utter his famous line, "I don't like Cinemascope: it's not human, it's good for filming snakes or funerals", which provokes a violent reaction from the producer, who accuses him of not following the script - to which Lang replies that reading words is different from creating images. And the producer comes up with another famous line: "When it comes to culture, I take out my checkbook," to which Lang retorts that, years earlier, the Nazis took out revolvers instead of checks. When he is asked to revise the script, the screenwriter says nothing, but pockets the check ... which makes Lang say that "man can stand without fear only before God: his candour protects him and needs neither weapons nor cunning until the absence of God comes to his aid." Later, the screenwriter says (Video 4): "I only do it for the money ... We all have an ideal, and mine is to write for the theatre ... Why must money occupy such an important place in what one does and in what one is? ... Either one stages Homer's Odyssey or one doesn't!", to which he gets the answer, "You aspire to a world similar to Homer's, you wish it existed ... but it's dead, you can't bring it to life again" and then, bitterly, "You may be right, but when it comes to making a film, dreams and desires aren't enough". And the screenwriter embodies precisely this dramatic tension between desire and reality: but while the tone of La ricotta is ironic and amused, even if bitter, the tone of Contempt is decidedly more melancholy and veiled with sadness for a world, and a cinema, which is disappearing. In the finale (Video 5), the screenwriter goes to say goodbye to the director on the set: they are shooting the scene in which Ulysses looks at the sea in the direction of home (Ithaca) ... "Once the film finished, [producers] Levine and Ponti took revenge on Godard's very critical attitude towards the producers' cinema by arbitrarily cutting the film in the versions intended for foreign countries: witness - if there was still a need - to the total incompatibility between two opposing visions of cinema and the world, between the "enfant terrible" Jean-Luc and the duo 'Mussolini Ponti' and 'King Kong Levine', as Godard, with his usual irreverent wit, had defined them." (Note 3) |
Video 1 Video 2 |
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Video 3 Video 4 |
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Video 5 Il disprezzo/Le mépris/Contempt (di/by Jean-Luc Godard, Italia/Italy-Francia/France 1963) - Il film completo, nella versione originale francese con sottotitoli, è disponibile qui/The full film, in its original French version with subtitles, is available here. |
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5. Nuove visioni, nuovi
"svelamenti" Come abbiamo visto in altri Dossier di questo progetto, un modo sfruttato da molti registi per "svelare" il meccanismo di un film è quello di introdurre lo spettatore ad un film apparentemente "normale", per poi improvvisamente interromperne la visione e mostrare che si trattava solo ... di un film - provocando sorpresa e spiazzamento nello spettatore stesso, che viene quasi "brutalmente" sottratto al mondo illusorio che si stava già costruendo. E quanto più lunga è la sequenza "illusoria" iniziale, tanto più grande sarà l'effetto spiazzante. I titoli di testa, che a volte compaiono solo dopo che si è verificato lo "svelamento", contribuiscono anch'essi a questo effetto decisamente "metacinematografico". "Effetto notte, ad esempio, si apre con la visione di una scena di vita urbana (si veda il Video 1 qui sotto): una piazza di Parigi, con il traffico, la gente che va e viene, una stazione della metropolitana ... seguiamo un personaggio che, arrivato di fronte ad un altro, lo schiaffeggia. Questo momento drmmatico è immediatamente interrotto da una voce fuori campo che urla; "Stop!". E' allora che ci rendiamo conto di aver assistito alle riprese di un film. Infatti, subito dopo, vediamo animarsi il set del film: la voce del regista che dà indicazioni, le ragazze addette al controllo della sceneggiatura, i truccatori ... e una voce fuori campo, quella di un reporter, ci avverte che stiamo assistendo alle prime riprese di un film ... di cui vengono intervistati alcuni attori che parlano del loro ruolo nel film. Le riprese riprendono dall'inizio: questa volta però sentiamo la voce del regista che man mano fornisce indicazioni sia agli attori che ai tecnici su come desidera che sia realizzata questa nuova ripresa. Effetto notte è considerato uno dei film che più chiaramente e apertamente mostrano il "dietro le quinte" della realizzazione di un film: in questo caso, il film in fase di produzione è "Vi presento Pamela", un dramma-thriller "all'americana". Stiamo dunque per assistere ad un doppio "svelamento": le riprese del "film nel film" e le riprese del vero e proprio film (Effetto notte: il titolo fa riferimento ad una tecnica che consente di girare una scena notturna durante il giorno: "la notte americana", come suggerisce il titolo francese, o "il giorno per la notte", come dice il titolo inglese). Ma Effetto notte è anche una specie di elegia funebre nei confronti del cinema classico (soprattutto americano) che Truffaut ha tanto amato, e che ormai, con l'affermarsi della "New Hollywood", il crollo dello studio system e i primi blockbuster, stava definitivamente tramontando. Il film nel film, "Vi presento Pamela" è la quintessenza del tipico film americano "che scorre come un treno" (parole di Truffaut stesso), un tipo di film che, affidandosi ad una produzione industriale ormai codificata da decenni, "fabbrica i sogni" nascondendo accuratamente i meccanismi attraverso cui realizza sullo schermo quei sogni: in un certo senso, tutto il contrario del cinema teorizzato e poi realizzato dalla nouvelle vague francese e dai tanti movimenti più o meno coevi." (Nota 4) |
5. New visions, new ways to unveil the film as artifact As can be seen in other Dossiers in this project, a way exploited by many directors to "reveal" the mechanism of a film is to introduce the spectator to an apparently "normal" film, then suddenly to stop it and show that it was only ... a film - causing surprise and disorientation in the audience, who is almost "brutally" removed from the illusory world that was already being built. And the longer the initial "illusory" sequence, the greater the unsettling effect. The opening credits, which sometimes appear only after the "unveiling" has occurred, also contribute to this decidedly "meta-cinematographic" effect. "Day for night, for example, opens with the vision of a scene of urban life (see Video 1 below): a square in Paris, with traffic, people coming and going, a subway station... we follow a character who, having arrived in front of another, slaps him. This dramatic moment is immediately interrupted by a screaming voice-over; "Stop!". It is then that we realize that we have witnessed the shooting of a film. In fact, immediately afterwards, we see the film set come alive: the voice of the director who gives directions, the girls in charge of checking the script, the make-up artists ... and a voice-over, that of a reporter, warns us that we are witnessing the first shots of a film ... of which some actors are interviewed about their role in the film. Shooting resumes from the beginning: this time, however, we hear the voice of the director who gradually provides indications to both the actors and the technicians on how he wishes this new shot to be done. Day for night is considered one of the films that most clearly and openly show the "behind the scenes" of the making of a film: in this case, the film currently in production is "Meet Pamela", an "American-style" drama-thriller ". We are therefore about to witness a double "unveiling": the filming of the "film within the film" and the filming of the real film (Day for night: the title refers to a technique that allows you to shoot a night scene during the day - "the American night", as the French title suggests). But Day for night is also a kind of funeral elegy for classical (especially American) cinema that Truffaut loved so much, and which by now, with the emergence of the "New Hollywood", the collapse of the studio system and the first blockbusters, was definitively coming to an end. The film within the film, "Meet Pamela" is the quintessence of the typical American film "that runs like a train" (words of Truffaut himself), a type of film which, relying on an industrial production that has been codified for decades, "makes dreams" by carefully hiding the mechanisms through which those dreams are produced on the screen: in a certain sense, the complete opposite of the cinema which was theorized and then realized by the French new wave and by the many more or less contemporary movements." (Note 4) |
Video 1 - Versione originale francese con sottotitoli italiani Video 2 - Original French version with English subtitles Effetto notte/La nuit américaine/Day for night (di/by François Truffaut, Francia/France 1973) Il film completo, in originale con sottotitoli, è disponibile qui/The full film, in the original version with subtitles, is available here. |
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L'affermazione delle "nuove cinematografie", così come della "New
Hollywood", tra gli anni '60 e gli anni '70, portava con sè, tra
l'altro, una contrapposizione tra cinema hollywoodiano "classico" e le
tendenze dei vari cinema nazionali, soprattutto (ma non esclusivamente)
europei. Eppure, nel momento della massima crisi di Hollywood e del
contemporaneo affermarsi del "cinema d'autore", abbiamo visto come
Hollywood, da un lato, cercasse di sopravvivere trasferendosi, sia pure
momentaneamente, in Europa (ad esempio, negli studi di Cinecittà a Roma,
per Cleopatra), e, dall'altro cercasse al contrario di attirare
registi europei in America, con l'intento, quasi mai riuscito, di
risollevare le proprie sorti. Mai come in questo periodo sono
dunque comparsi film che riflettevano sulle differenze tra il
cinema americano e quello europeo, spesso andando anche più a fondo nel
chiedersi che funzioni avesse il cinema e come potesse "rifondarsi". Tra
i registi in cui è più chiaramente visibile questa tendenza, il tedesco
Wim Wenders, trasferitosi (senza grandi soddisfazioni) per qualche anno
negli Stati Uniti, ha saputo cogliere nei suoi film il malessere di un
cineasta smarrito e a disagio nel suo ruolo e nei suoi rapporti con il
cinema americano: un incontro tra un cinema fatto di psicologie e di
discorsi veicolati dal film e un cinema tutto volto all'azione e al
movimento; uno scontro che da culturale si trasforma in universale,
esistenziale. Il suo film Lo stato delle cose ne è un esempio
molto chiaro: il film inizia, similmente a Effetto notte, con
un film di fantascienza, girato a colori (si veda il Video 1 qui sotto),
che si interrompe dopo qualche minuto, passando al bianco e nero, per
mostrarci il set dove si stava girando (e in sovrimpressione i
titoli di testa). Ma la pellicola è finita, i soldi pure, e alla
troupe non rimane che aspettare che dall'America arrivino dei nuovi
fondi. Il regista tedesco di questo film (un alter ego di
Wenders) si reca a Los Angeles per incontrare il produttore, ma solo per
scoprire che costui è ricercato dalla polizia e dalla mafia per
riciclaggio di denaro: non è che la punta dell'iceberg di un sistema
produttivo che naturalmente pone il profitto al di sopra di ogni altra
considerazione. E, tra immagini che fanno presagire, oltre che l'amore
per il cinema, anche la sua crisi, se non la sua morte, il regista
finirà per essere ucciso, insieme al produttore (Video 2): punterà la
sua cinepresa contro i killer, come se se fosse una pistola, in un
ultima celebrazione del valore e della funzione del cinema, e la sua
cinepresa continuerà a riprendere la scena anche dopo che il suo
"operatore" è scomparso ... |
The success of the "new cinematographies", as well as of the "New Hollywood", between the 60s and the 70s, brought with it, among other things, a contrast between "classical" Hollywood cinema and the trends of the various national cinemas, especially (but not exclusively) European. And yet, at the moment of the greatest crisis in Hollywood and the contemporary affirmation of "author's cinema", Hollywood, on the one hand, tried to survive by moving, albeit momentarily, to Europe (for example, to the Cinecittà studios in Rome), and, on the other hand, tried to attract European directors to America, with the unsuccessful intention of reviving its fortunes. Never before have films appeared that reflected on the differences between American and European cinema, often going even deeper, into wondering what functions cinema had and how it could "re-found itself". Among the directors in whose work this trend is most clearly visible, the German Wim Wenders, who moved (without great satisfaction) to the United States for a few years, was able to capture in his films the malaise of a filmmaker lost and uncomfortable in his role and in his relationships with American cinema: an encounter between a cinema made up of psychologies and discourses conveyed by the film and a cinema all aimed at action and movement - a clash that from cultural turns into universal and existential. His film The state of things is a very clear example of this: the film begins, similarly to Day for night, with a science fiction film, shot in colour (see Video 1 below), which stops after a few minutes, turning to black and white, to show us the set where the sci-fi movie was being shot (together with the superimposed opening credits). But the film is over, the money as well, and the crew just have to wait for new funds to arrive from America. The German director of this film (an alter ego of Wenders) travels to Los Angeles to meet the producer, only to discover that he is wanted by the police and the mafia for money laundering: this is just the tip of the iceberg of a production system that naturally places profit above all other considerations. And, among images that foreshadow not only the love for cinema, but also its crisis, if not its death, the director will end up being killed, together with the producer (Video 2): he will point his camera at the killers, as if it were a gun, in an ultimate celebration of the value and function of cinema, and his camera will continue to film the scene even after its "operator" has died ... |
Video 1 Video 2 Lo stato delle cose/Der Stand der Dinge/The state of things (di/by Wim Wenders, Repubblica Federale Tedesca/German Federal Republic-Portogallo/Portugal 1982) |
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6. Verso il meta-cinema
estremo "La natura riflessiva del cinema diventa ancora più esplicitamente focalizzata nei film di registi come Atom Egoyan e Abbas Kiarostami. In Ararat (vedi il trailer in basso a sinistra), il regista armeno-canadese Egoyan sceglie di girare un film su ciò che è, per definizione, "non filmabile", ovvero il genocidio armeno da parte dei turchi nel 1915. Ben consapevole dei limiti intrinseci del cinema, egli mette deliberatamente alla prova il suo film, per vedere fino a che punto la realtà può essere rappresentata attraverso l'arte, in questo caso un film. Questo è un "film su un film", visto che assistiamo a un regista che gira più o meno lo stesso film che stiamo vedendo, ma il suo messaggio è chiarissimo: un mezzo come il cinema può rappresentare l'orrore di un genocidio? Egoyan risponde "svelando" i meccanismi del cinema stesso, mostrando che tutto è "ricostruito", quindi in un certo modo falso, e comunque la realtà sfugge alle immagini del film - sottolineando così che la verità è stata molto più terribile di ciò che un film può mostrare. Il film è costruito attorno a una serie di personaggi e storie differenti e la versione originale è parlata in quattro lingue diverse; è un tentativo molto ambizioso di affrontare un compito molto impegnativo, essendo più film contemporaneamente: in parte film epico-storico, in parte documentario, in parte indagine filosofica, oltre ad essere una sorta di saggio sul processo di produzione cinematografica, i relativi punti di forza e di debolezza di ogni approccio e i suoi limiti etici e politici. Un approccio ancora più drastico è la caratteristica fondamentale del lavoro del regista iraniano Abbas Kiarostami, che, nel corso della sua carriera, ha messo alla prova i limiti dell'espressione cinematografica. I suoi film presentano spesso un regista che gira un film, attori non professionisti che non recitano ma vengono mostrati solo come se stessi, così come eventi della vita reale come una vera sepoltura, un processo, un terremoto o semplicemente i problemi della troupe di un film incapace di completare (e persino di iniziare) il proprio lavoro. Ad esempio, in E la vita continua (vedi il trailer in basso a destra), un padre (che impersona lo stesso regista) e il suo giovane figlio tornano nel luogo in cui Kiarostami aveva girato un film precedente (Dov'è la casa del mio amico?, Iran 1987), alla ricerca dei ragazzi che avevano allora interpretato i due personaggi. Nel frattempo la zona è stata devastata da un (vero) terremoto e il compito di trovarli si rivela molto impegnativo. Questo è chiaramente, almeno in parte, un film autobiografico, ed è difficile distinguere la realtà dalla finzione, poiché l'approccio documentario e quello immaginativo sono strettamente intrecciati. In questo modo Kiarostami offre una riflessione lucida e stimolante sulla natura del cinema, sui suoi usi e sui suoi limiti, oltre che esplicitare al pubblico la sua base ideologica. Pone a se stesso (e al pubblico) domande fondamentali come, qual è il rapporto tra un regista e i suoi attori e qual è la sua responsabilità nei loro confronti, soprattutto se non sono professionisti? È moralmente accettabile trasformare gli abitanti di un villaggio in semplici fantasmi di se stessi? E fino a che punto si può usare un luogo segnato dal disastro e dalla morte come luogo di una storia di fantasia? Kiarostami non ha risposte esaurienti a queste domande: si limita ad avvicinarsi alle persone, le lascia parlare e il suo cinema diventa un'esperienza personale che coinvolge il pubblico come parte di essa - un modo estremo, appassionato e coerente di affrontare il cinema come pratica riflessiva." (Nota 5) |
6. Towards extreme meta-cinema "The reflective nature of cinema becomes even more explicitly focussed in films by directors like Atom Egoyan and Abbas Kiarostami. In Ararat (watch the trailer below left), Armenian-Canadian director Egoyan chooses to shoot a film about what is, by definition, "not filmable", i.e. the Armenian genocide by the Turks in 1915. Well aware of film's inherent limitations, he deliberately puts his film to the test, to see how far reality can be represented thorugh art, in this case a movie. This is a "film about a film", since we witness a director making more or less the same movie we are watching, but its message is made crystal-clear: can a medium like cinema represent the horror of a genocide? Egoyan answers by "unveiling" the mechanisms of cinema itself, by showing that everything is "re-built", thus in a way false, and in any case reality escapes the film's images - thus stressing that the truth was much more terrible than what a film can show. The movie is built around a series of different characters and stories and the original version is spoken in four different languages; it is a very ambitious attempt at facing a very demanding task by being many films at once: part historical epic, part documentary, part philosophical enquiry, in addition to being a sort of essay on the process of filmmaking, the relative strengths and weaknesses of each approach, and its ethical and political limitations. An even more drastic approach is the keynote of the work of Iranian director Abbas Kiarostami, who, all along his career, has put the boundaries of cinematic expression to the test. His films often feature a director making a movie, non-professional actors who are not acting but are just shown as their real selves, as well as real-life occurrences like a real burial, a trial, an earthquake, or simply the problems of a film's crew unable to complete (and even to start) their work. For example, in And life goes on (watch the trailer below right) a father (impersonating the director himself) and his young son return to the place where Kiarostami had shot an earlier film (Where is the friend's house, Iran 1987), searching for the boys who had then played the two characters. Meanwhile, the area has been devastated by a (real) earthquake, and the task of finding them proves a very demanding one. This is clearly, at least partially, an autobiographical film, and it is hard to tell reality from fiction, since the documentary approach and the fictional one are closely intertwined. In this way Kiarostami offers a lucid, thought-provoking reflection on the nature of cinema, its uses and its limitations, as well as making explicit his ideological basis to the audience. He asks himself (and the audience) basic questions like, What is the relationship between a director and his actors, and what is his responsibility towards them, especially if they are not professionals? Is it morally acceptable to turn the inhabitants of a village into mere ghosts of themselves? And how far can you use a place marked by disaster and death as a location of a fictional story? Kiarostami does not have full answers to such questions: he just gets closer to the people, lets them talk, and his filmmaking becomes a personal experience which involves the audience as part of it - an extreme, passionate and coherent way to approach cinema as reflective practice." (Note 5) |
Ararat - Il monte dell'Arca/Ararat (di/by Atom Egoyan, Canada/Francia/France 2002) |
E la vita continua/Va zendegi edame darad/And life goes on (di/by Abbas Kiarostami, Iran 1992) |
Note/Notes
(1) Ruby J. 1980. "Exposing yourself: reflexivity, anthropology, and film", Semiotica, 30 - 1/2, pp. 166-167.
(2) Da/From Bidaud A.M. 1984. "Hollywood mis en question dans les films des années soixante et soixante-dix : fictions, citations et métacinéma", Revue Française d'Etudes Américaines, N°19, Hollywood au miroir. pp. 122-123.
(3) Ames C. 1997. Movies about the movies: Hollywood reflected, University Press of Kentucky, p. 37.
(4) Da/From François Truffaut: l'amore per il cinema, il cinema dell'amore - Prima parte/François Truffaut: love for cinema, the cinema of love - Part 1 su questo sito/at this site.
(5) Da/From I film "puzzle" e la narrazione complessa: una sfida allo spettatore - Terza parte/"Puzzle" films and complex storytelling: a challenge to the audience - Part 3 su questo sito/at this site.
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